Ankara prolunga il mandato dell’operazione mentre un F-16 Usa abbatte un drone turco

Pubblicato da Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’ Italia – 07/10/2023

Nuova offensiva militare aerea in Siria in un momento delicato del conflitto e di tensioni regionali e internazionali

La nuova offensiva militare aerea lanciata dalla Turchia contro obiettivi curdi in territorio siriano, dopo l’attentato dello scorso primo ottobre contro il ministero dell’Interno ad Ankara, rivendicato dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (il Pkk turco), giunge in una fase delicata del conflitto in Siria, oltre che in un momento di tensioni regionali e internazionali. Ankara e Damasco, infatti, negli ultimi mesi, stavano tentando di intraprendere un processo di normalizzazione delle relazioni, caldeggiato da Russia e Iran, entrambi alleati del presidente siriano, Bashar al Assad. Il nodo che aveva provocato uno stallo nei negoziati era quello della presenza di contingenti e basi militari della Turchia nel nord della Siria, che Damasco giudica “illegale”, ponendo come precondizione a qualsiasi normalizzazione il ritiro dal proprio territorio delle forze turche e delle milizie ad esse affiliate, in particolare quelle appartenenti all’Esercito nazionale siriano, fondato nel 2017 con il sostegno di Ankara e costituito per lo più da arabi e turcomanni. Di contro, Ankara ritiene la propria presenza militare in Siria una “misura necessaria” per tutelare la propria sicurezza nazionale, escludendo qualsiasi ritiro nel breve termine, tanto più dopo l’attentato del primo ottobre, i cui due autori, secondo il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, erano stati addestrati in Siria.

Giovedì, inoltre, il Parlamento turco ha ratificato una mozione del presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, che ha prolungato di altri due anni – e non di un solo anno, come avvenuto finora – il mandato alle Forze armate in Siria e in Iraq. Dalla prospettiva della questione curda, i governi di Siria e Turchia sono entrambi contrari al peso politico e al controllo territoriale di cui negli ultimi anni hanno goduto le Forze democratiche siriane (Fds) e le Unità di protezione del popolo (Ypg), ala militare del Partito dell’unione democratica (Pyd), che detiene le redini dell’Amministrazione autonoma del nord e dell’est (nota anche come Rojava). Tale peso dipende soprattutto dal ruolo che le milizie curde hanno giocato, tanto in Siria quanto in Iraq, nel contrastare l’avanzata dell’Organizzazione terroristica dello Stato islamico (Is) in entrambi i Paesi. Senonché, mentre i peshmerga curdi iracheni intrattengono con la Turchia relazioni di sostanziale coesistenza pacifica, Fds e Pyd, entrambi appartenenti all’Unione delle comunità del Kurdistan (Kck) con il Pkk, sono considerate da Ankara organizzazioni terroristiche. I peshmerga sono infatti rivali del Pkk e del partito curdo-iracheno ad esso legato, l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidata da Bafel Talabani e che gestisce l’antiterrorismo in alcune sue roccaforti, come Sulaymaniyah (che non a caso, insieme alle montagne del Qandil, è una delle regioni dell’Iraq settentrionale più colpite dalla Turchia).

Tuttavia, le forze curde siriane sono sostenute dagli Stati Uniti, oltre che da altri attori internazionali importanti come la Francia, ufficialmente nel quadro della lotta contro l’Is. La presenza di elementi curdi in Svezia era stata la principale motivazione addotta da Ankara per spiegare le proprie reticenze verso un’adesione di Stoccolma alla Nato. Intanto, in Siria, mentre il tessuto sociale è messo a dura prova da condizioni economiche rese sempre più difficili dalla guerra e dai rincari dei carburanti e dei generi alimentari, la nuova offensiva aerea turca si innesta in una pluralità di conflitti. In primo luogo quelli militari, dal momento che anche l’area demilitarizzata a nord-ovest, a ridosso del confine con la Turchia, detta “zona Putin-Erdogan” (in quanto frutto di un accordo concluso nel 2018 dai presidenti di Russia e Turchia, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan) negli ultimi mesi ha assistito a un’intensificazione dei combattimenti, soprattutto tra le Forze armate siriane governative e le milizie islamiche (soprattutto Ansar al Tawhid e Hayat Tahrir al Sham). Inoltre, nel governatorato di Idlib, incluso nella zona Putin-Erdogan, e in quelli di Aleppo e Latakia, si sono intensificate le operazioni dell’aviazione militare russa, sostenute dalle milizie locali affiliate al governo di Damasco.

Negli ultimi mesi, anche la Coalizione internazionale a guida statunitense ha aumentato la propria presenza militare in Siria, a sostegno delle Forze democratiche siriane, con le quali ha effettuato esercitazioni militari e pattugliamenti congiunti. Giovedì il Pentagono ha dichiarato che un caccia statunitense F-16 ha abbattuto un drone turco armato che si avvicinava a 500 metri dalle truppe Usa nel nord-est della Siria. Dopo l’“incidente”, ieri sera, il segretario di Stato alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, ha avuto un colloquio telefonico con il ministro della Difesa turco, Yasar Guler, che ha dichiarato l’apertura di Ankara a una cooperazione sul campo. Peraltro i due Paesi sono alleati nella Nato. Intanto, oggi, la Turchia ha diffuso, attraverso un comunicato stampa del ministero degli Esteri, la propria versione ufficiale dell’accaduto, dichiarando di aver “perso” uno dei suoi droni nel nord-est della Siria a causa di “diverse valutazioni tecniche” con terze parti sul campo, senza specificare quali. Nello stesso comunicato, si specifica che l’abbattimento del drone non ha avuto alcun impatto sulle operazioni militari di Ankara, che starebbe lavorando con le parti interessate (anche in questo caso senza specificare quali) per migliorare il funzionamento dei meccanismi di non-conflitto in Siria.

Vale la pena sottolineare che la versione ufficiale di Ankara sull'”incidente” occorso al drone è stata affidata alla diplomazia, e non al dicastero della Difesa. Recentemente, inoltre, si sono acuiti i conflitti su base etnica, in parti- colare dalla fine di agosto, quando l’arresto da parte delle Fds del capo del Consiglio militare di Deir ez Zor, Ahmed al Khabil, noto anche come Abu Khawla (appartenente al clan Al Bakir della potente tribù araba al Akidat) era stata la causa immediata di violenti scontri tra le tribù arabe e le forze curde. I combattimenti si erano poi sostanzialmente conclusi (a parte episodi sporadici) il 7 settembre, quando il comandante delle Fds, Mazloum Abdi, si era impegnato a venire incontro alle richieste delle tribù arabe, in particolare una maggiore rappresentanza nelle istituzioni civili e militari. Gli stessi territori controllati dall’Amministrazione autonoma del nord e dell’est, inoltre, nelle ultime settimane sono stati teatro di proteste contro le istituzioni curde per la decisione di quadruplicare i prezzi dei carburanti, innescando rincari dei generi di prima necessità. Intanto, nel sud della Siria, nel governatorato di Suwayda, adiacente al confine con la regione delle Alture del Golan (occupata da Israele durante la guerra del 1967 e annessa nel 1981), da oltre un mese sono in corso proteste che, iniziate con rivendicazioni economiche, si sono configurate sempre di più come un sollevamento popolare della comunità drusa per la transizione politica nel Paese, in conformità con la risoluzione 2245 del Consiglio di sicurezza Onu.

Ai manifestanti, infatti, lo scorso 13 settembre hanno espresso il proprio sostegno due capi religiosi della comunità drusa, Hikmat al Hijri e Hamoud al Hanawi. Sia a Suwayda, sia a Deir ez Zor, inoltre, sono intervenuti gli Stati Uniti, nel primo caso a sostegno dei drusi (prendendo contatti con Al Hijri), nel secondo al fine di mediare tra le tribù arabe, soprattutto Al Akidat, e le Forze democratiche siriane. L’ondata di tensioni che ha attraversato le tribù arabe e la comunità drusa in Siria sembra dunque aver posto fine alla luna di miele da un lato tra arabi e curdi, dall’altro tra drusi e Forze armate di Damasco, in entrambi i casi fondata sulla necessità di respingere lo Stato islamico. Eppure, l’offensiva aerea turca contro obiettivi curdi in Siria avrebbe potuto agevolare in un certo senso la normalizzazione tra Ankara e Damasco, entrambe contrarie a un eccessi- vo peso della componente curda. I due Paesi, peraltro, nel 1984 avevano siglato un protocollo di cooperazione per la sicurezza dei confini comuni e per la lotta al terrorismo. Nel 1987, invece, Siria e Turchia avevano firmato due protocolli d’intesa, uno per la cooperazione economica (riguardante la gestione delle risorse idriche, altra questione che ha spesso causato tensioni tra la Turchia da un lato e la Siria e l’Iraq dall’altro) e l’altro per la cooperazione in tema di sicurezza, riguardante i gruppi “terroristici” presenti sui rispettivi territori nazionali.

Nondimeno, il governo siriano aveva continuato a ignorare la presenza di miliziani del Pkk sul suo territorio, incappando nelle accuse della Turchia di sostenere il movimento. Nel 1996, dopo l’accordo militare con Israele, la Turchia, riducendo le proprie relazioni diplomatiche con la Siria, aveva iniziato a esercitare pressioni su Damasco, assieme agli Stati Uniti, chiedendo di limitare la presenza del Pkk sul suo territorio e, nel 1998, giungendo alla minaccia di intervento militare. La situazione sembrava appianata dopo la stipula degli accordi di Adana (1998), in base ai quali Damasco ritirava il proprio sostegno al Pkk e, nel 1999, ne espelleva l’allora capo, Abdullah Ocalan, attualmente recluso nel carcere di massima sicurezza di Imrali, in Turchia. La rottura diplomatica tra Siria e Turchia avviene infine nel 2011, con l’esplodere della guerra civile siriana, nel cui contesto Ankara ha da sempre sostenuto gruppi di opposizione al governo di Damasco, incluse milizie di ispirazione islamica sunnita radicale.